L’euro è tutt’altro che irrilevante nel consentire la sopravvivenza del sistema attuale, perché impone continuamente, qualunque sia il grado di austerità di una politica, la soluzione della deflazione salariale e perché costringe il debitore a restare eternamente tale. Ragion per cui uscire dall’euro magari non sarà la soluzione, ma certo ne è condizione sine qua non. Ecco perché pensate un po’ – c’è gente a sinistra e non sempre gente estremista che ritiene la battaglia contro l’euro essenziale e sacrosanta. Uscire
dall’euro è la proposta e partiamo da un presupposto che è quello
su cui poggia tutto il discorso che segue. Immergerci in quella che
crediamo essere una piscina, per poi scoprire di trovarci in una
vasca di piranha, dovrebbe naturalmente indurci a tornare indietro al
più presto ma accade anche che la paura e la rassegnazione blocchino
testa e muscoli e si rimanga così – inerti – in attesa del
terribile ed inevitabile destino. Ugualmente può accadere che,
sempre credendo di concederci un bel bagno, ci si trovi nel bel mezzo
di una grande pentola d'acqua in ebollizione che avevamo scambiato per le terme di
Saturnia o San Casciano. Anche lì la ragione non avrebbe dubbi ma
essa di nuovo, resterebbe inibita dalla rassegnazione anzi, in questo
caso, l'aumento progressivo della temperatura limiterebbe anche le
possibilità fisiche di evacuare la malefica trappola.
Che
fare? Uscire. Ovvio. L'incoscienza è restare fermi. Inerti.
Specifico che, in una precedente nota intitolata "NO", ho
già espresso le motivazioni che dolorosamente mi hanno portato e
decidere – per la prima volta nella mia vita – a non partecipare
a delle pubbliche elezioni, le prossime europee, dopo aver
addirittura partecipato, accettando anche la mia candidatura, alle
amministrative a Roma ma, a partire dai primi di gennaio fino ad
oggi, le condizioni sono decisamente peggiorate dal punto di vista
politico-istituzionale e non vi sono, a mio avviso, le condizioni per
esercitare questo storico ed importante diritto/dovere. Incosciente
dicevo quindi, dopo questa breve parentesi personale, è aspettare il
peggio che avanza inesorabile e vedremo più avanti come e perchè,
con fatica, coraggio, spirito di gruppo e soprattutto istinto di
sopravvivenza: U-sci-re.
Coesi
e solidali. Come in un esodo dal sapore antico, abbandonare miti e
falsi profeti e ricacciare indietro il demone della carestia. Il
CimitEuro, come una amica ha definito lo scenario che ci stiamo
“inconsciamente” preparando. Oppure – più laico e meno
leggendario esempio – esercitare il diritto/dovere di combattere
una nuova guerra di liberazione nazionale e che sia esempio e miccia
per una sollevazione continentale e mondiale. Non sono chiacchiere.
Non vi sono alternative quando si viene colpiti così duramente e si
percepisce il danno dei colpi ricevuti, stimando che si potrebbe
arrivare al colpo mortale da un momento all'altro. Dico, non vi sono
alternative al “vendere cara la pelle”, come John Wayne
proclamava sempre al minuto 55 nei peggiori war-movies e old-western
americani del dopoguerra, prima di gettare il cuore (ed il cavallo)
oltre l'ostacolo. Proviamo a ragionare, con l'ausilio di una materia
delicata e infida come l'economia politica. L’Economist
che non è certo una webzine
marxista-leninista, ha pubblicato all'inizio di quest'anno un grafico
che potete apprezzare e che mostra le variazioni del reddito
pro-capite, la quantità di PIL (prodotto interno lordo) mediamente
posseduta dai cittadini di un determinato stato: un indicatore usato
spesso per misurare il benessere della popolazione di un paese –
dal 1999 al 2014, cioè dal debutto dell’euro sui mercati
finanziari fino ad oggi. Il grafico comprende alcuni Paesi che fanno
parte dell’eurozona, altri che non ne fanno parte ma che sono
nell’Unione Europea ed altri extra-europei. Il reddito pro-capite è
cresciuto ovunque, nonostante la crisi economica e le recessioni,
meno che in Italia e ricordo, i dati sono del Fondo Monetario
Internazionale.
Uscire dalla moneta unica e riconquistare il diritto al conio nazionale
significa, tra le altre cose, non soltanto colpire in modo incisivo la
classe dirigente che ci sta massacrando ma soprattutto rende possibile utilizzare strumenti a noi al momento
interdetti. Uno tra tutti è quello della
“svalutazione della propria moneta”.
Strumento che ci raccontano essere una iattura ma che invece, è
stato ed è ancora utilizzato dai Paesi con moneta sovrana nazionale,
per aumentare le esportazioni, agendo sulla leva della domanda
esterna. Ora, avete presente l'importanza del ruolo, l'incisività
che potrebbe avere tale strumento, nella ripresa economica di un
Paese vocato come sappiamo all'export e al turismo di qualità com'è
l'Italia, in deficit commerciale cronico da quindici anni almeno?
D'accordo, qui ci dobbiamo capire. Io non posso certamente, nella mia
posizione ideologica ed intellettuale – che potete facilmente
intuire – prendere in considerazione che so, le analisi di Arnold
Harberger, George Stigler o Milton Friedman. Se, come sto facendo,
prendo in considerazione obiezioni e critiche a questa
“exit-strategy”, lo faccio da economisti ed analisti che, seppure
attraverso differenti percorsi e strategie, hanno lavorato e lavorano
per quella parte politica che possiamo definire “sinistra”. Non
prendiamo queste parole come uno slogan da corteo di piazza ma
ragioniamoci su. Anche dopo che in Germania, a settembre dell'anno
scorso, la minaccia dell’ingresso del partito euro-scettico AfD
alle elezioni tedesche è stato sventato, in Europa le voci contro la
moneta unica hanno continuato a farsi sempre più pressanti, sulla
base del Manifesto di Solidarietà Europea, sottoscritto da
economisti soprattutto dell’eurozona e presentato a Bruxelles già
a gennaio del 2013.Secondo le stime di illustri studi di economia
come quello di Granville, il declino dell’export tedesco
ammonterebbe al 12%, equivalente al 6% di perdita in termini di Pil.
Non solo, la Germania ha un surplus
del 6,5% di Pil, ben al di sopra del pur alto livello di Cina e
Giappone e sappiamo che il Fmi raccomanda invece un surplus
non superiore al 4%. La Germania quindi, contribuisce ad uno dei
maggiori squilibri dell’economia globale, specialmente
nell'eurozona del sud ma questo viene totalmente ignorato dai vertici
della Commissione, dalla BCE e dallo stesso FMI. Conta o no – e
quanto – a supporto di una prima analisi, seppure sommaria e
puramente esplorativa, il fatto che al momento nessuna frazione delle
classi dominanti europee, attraverso tutte le agenzie, i media e
tutto l'apparato di informazione ad essa legato, non esprima in
nessun luogo l'interesse a rompere la macchina “Euro”? Non
ovviamente la GerMagna (che come abbiamo visto ci guadagna), non i
nostri grandi capitalisti e neanche la classe dirigente italiana
(casta) e sud-europea le quali, grazie all'alibi del cosiddetto
”vincolo
esterno”
sono ormai felicemente accoppiate dentro il crogiolo delle larghe
intese nazionali, dispensate dall'emergenza economica (..sic!) dal
rendere conto agli elettori del proprio operato. Ora, se le
precedenti categorie sono quelle a cui appartieni, alle quali fai
riferimento, ambisci magari a tale status oppure le consideri un
punto di partenza e/o di arrivo, bene, hai intercettato un documento
antagonista e puoi essere fiero della tua operazione di spionaggio ma
se al contrario, sei una persona che condivide con me l'avversione
alle categorie sopracitate ma conserva dubbi sul prendere una decisa
posizione anti-Euro, ascolta. Da parte di economisti ed analisti
anti-austerity ma scettici sulla “fuga” dall'Euro, si obietta
sovente che: “svalutare
ci esporrebbe ad oggi, a incertezze e rischi di gran lunga maggiori
di quelli di ieri. Rischi maggiori”
– si dice – di
quelli che economisti pubblicamente schierati contro l'Euro – come
ad esempio Bagnai – sembrano immaginare”.
Questo è un punto di analisi ovviamente serio, sulla cui importanza
concordo pienamente ma, pur nell’attuale situazione di turbolenza
economica mondiale, consapevole che l’uscita non è (in sé) la
soluzione definitiva e va considerata come l’apertura di nuovi
problemi, una operazione di riconquista della sovranità monetaria
comporta conseguenze ed “effetti
collaterali”
che devono essere assolutamente presi in considerazione. Questo
significa infatti che l'abbandono della moneta unica dev'essere
accompagnata da soluzioni che affrontino tali problemi, con un
programma economico e politico preciso che implichi misure radicali
quali la indicizzazione dei salari, il controllo dei prezzi e del
movimento dei capitali, nazionalizzazioni e una forte politica
industriale; lo sganciamento del nostro Paese dal riferimento
preferenziale al capitalismo atlantico/anglosassone, con conseguente
apertura a relazioni commerciali e di partenariato con il sud
europeo, il mediterraneo, ai brics(t)
e
non ultima, ad altri Paesi in via di sviluppo e che abbiano progetti
e programmi di ispirazione social-democratica vera, se non
socialista, capaci di attrarre a sé anche un forte consenso
popolare. Non quindi, come temono gli amici analisti di sinistra ma
scettici sull'uscita dall'Euro, un semplice ritorno alla nazione ma
la creazione di un nuovo spazio internazionale. Un primo passaggio –
mi rendo conto – molto radicale e ambizioso e che proprio per
questo fatica ad essere addirittura prospettato, proposto, men che
meno tentato ma la situazione sociale diverrà insopportabile e
questo passaggio, disseminato di trappole, rischi ed incognite, è
una svolta storica, la virata decisa attraverso la quale prima o poi
dovremo impegnarci, pena l'estinzione a morsi (dei piranha) o la
bollitura di cui all'inizio. Nel restare fermi ed inermi. In attesa,
tentando di sopravvivere tra una rata del SUV ed un suicidio, non ci
sono grandi incognite, tranne sapere se troveremo parcheggio vicino
ai carrelli del discount, chi vincerà Sanremo o lo scudetto. C’è
piuttosto la certezza di andare verso il completo impoverimento,
prima culturale, poi sociale ed economico del Paese e condizioni
caste impenetrabili e di schiavitù irreversibile. Un futuro a dir
poco raccapricciante ma che, come potremmo dire per l'ambiente e la
Terra, possiamo scegliere se cominciare ad affrontarlo e prenderlo di
petto subito, inequivocabilmente oppure – vigliaccamente –
lasciare che le generazioni future debbano occuparsene senza speranza
di riuscire a liberare se stessi ed il pianeta da questa dannata
maledizione. A voi la scelta.