C’è un grosso equivoco che ha accompagnato in questi anni donne e uomini italiani, illusi dalla percezione del Lavoro come strumento di realizzazione personale, scalata sociale e soddisfazione economica individuale, magari a scapito del collega o del vicino. D’altra parte è ovvio che sia così, quando il modello imprenditoriale che si è imposto negli anni del “boom” è stato quello degli Agnelli e della FIAT, aiutato e sostenuto da destra, sinistra e sindacati, rispetto per esempio a quello di Olivetti, abbandonato invece da tutta la politica, la classe dirigente e la Confindustria in quanto reo di aver proposto un’alternativa all’idea di padre-padrone a cui tutto è dovuto, in favore di un’imprenditoria dinamica, responsabile e attenta e che per giunta funzionava pure sul mercato. In questa scelta scellerata la società, nel suo complesso, ci ha rimesso pesantemente, mentre ognuno ha avuto, negli anni d’oro passati, il proprio momentaneo tornaconto. La classe politica e dirigente si è assicurata una sorta di “pace sociale” ed il consenso dell’elettorato, moderato e borghese, nonché di industriali ed imprenditori legati al cosiddetto indotto, la grande industria ha potuto operare sul territorio nazionale senza curarsi delle variabili del mercato oltre confine, avendo assicurato il proprio bilancio dagli interventi statali e non ultimi, i sindacati che, sulla base di tali protezioni, hanno raccolto credibilità e tesserati tra i lavoratori, ottenendo vantaggiosi accordi con i governi e con l’industria, messi artificiosamente e rispettivamente nelle condizioni, i primi di non abusare di tagli sul welfare, i diritti del lavoro ed i servizi sociali e la seconda, di bloccare i licenziamenti e non adoperare in modo indiscriminato le forbici su assi determinanti come la sicurezza sul lavoro, il numero dei dipendenti e la conservazione degli stabilimenti sul territorio nazionale. Tutto ciò è avvenuto tralasciando di determinare lo sviluppo di un modello basato sulla pianificazione industriale e la ricerca di mercato, l’innovazione tecnologica, la formazione professionale e la partecipazione attiva dei lavoratori alla progettazione, alle decisioni e ai destini dell’impresa in termini di utilità sociale e di competitività sul mercato globale.
Questo mondo virtuale, fatto di utili privati (super azionisti) e perdite pubbliche (cassaintegrazione), creato ad hoc per un equivoco tutto italiano, ha concluso il suo ciclo in modo repentino, nel giro di una manciata di anni, dal crollo del muro a tangentopoli, dalla moneta unica alla globalizzazione e gli effetti devastanti della totale mancanza di progettualità ce li ritroviamo oggi sempre più evidenti ed incalzanti, con una classe dirigente che continua a sbagliare strategia salvo addebitare e far pagare tali errori alla forza lavoro. Basti pensare che i dipendenti della FIAT auto sono passati dai 120,000 del 1993 ai circa 20,000 di oggi e Marchionne si preoccupa della produttività degli impianti. Paragonando Termini Imerese alla Polonia e al Brasile, in termini di unità produttive impiegate e numero di veicoli prodotti, chiude e delocalizza gli impianti e licenzia altre 5,000 dipendenti in Italia ma c’è un punto; finita anche l’era degli eco-incentivi statali, a chi intenderebbe venderle le sue auto, più numerose e meno costose? E dov’è il piano industriale dell’impresa?
Già. L’impresa.
C’è un articolo della nostra adulata e al contempo vessata Costituzione che meno di altri catalizza l’attenzione dell’opinione pubblica e dei dibattiti politici e mediatici, è l’art. 41 che tengo a ricordare: [..L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali..].
In Italia il ruolo della politica e della società civile è quello di ripensare la funzione del lavoro nella nostra società. Un ruolo importante che deve tener conto di fattori ai quali fino a ieri era considerato inutile e forse anche puerile attribuire un peso nelle scelte.
Quando un lavoratore, in condizioni di sicurezza sul lavoro insufficienti, perde un dito, un braccio o un polmone in alcuni casi viene giustamente risarcito ed è un suo sacrosanto diritto ma è anche la comunità che perde un dito, un braccio o un polmone. Quando un’impresa fallisce un obiettivo strategico per carenza di investimenti nell’innovazione e nello sviluppo forse l’imprenditore fa comunque cassa nell’immediato, in molti casi penalizzando i lavoratori ed evadendo il fisco ma è la nostra società che fallisce il suo obiettivo strategico nel medio-lungo termine.
La partecipazione congiunta al piano industriale, l’attenzione ai temi ambientali e sociali e la percezione di essere portatori di diritti e responsabilità, sia del lavoro e del capitale industriale quindi, porta dritti dritti alla giusta interpretazione dell’articolo costituzionale sopra citato ed è compito della politica dare risposte legislative ed indirizzare in tal senso l’economia del Paese, attraverso politiche fiscali ed incentivi che favoriscano questi modelli di investimento e di sviluppo, dando anche al lavoratore dipendente le giuste motivazioni sociali ed economiche, penalizzando nel capitale l’evasione fiscale (il 93% del gettito fiscale in Italia è dato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati), le rendite finanziarie, patrimoniali e fondiarie, nonché le speculazioni indiscriminate sull’eterno “mattone”, quale presunta panacea di tutti i mali.
Sarà quindi giusto e utile per tutti lavorare meno e lavorare bene oppure come diceva un compagno goloso di Sacher "vogliamo continuare a farci del male"?
Guarda il video:
Nessun commento:
Posta un commento